Dal 1951 al 1958
Quel 29 gennaio 1951.
Non sappiamo quanti, quella sera, si sintonizzarono con il Casinò di Sanremo ma è probabile che molti, ancora una volta, preferirono uscire di casa per andare a teatro o al cinema.
Sugli schermi furoreggiava Catene di Raffaello Matarazzo, con Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari. Al Corso e al Capitol di Roma sempre Nazzari era protagonista di una pellicola truculenta, Barriera a Settentrione, che la pubblicità presentava con parole che oggi ci fanno sorridere: la lotta silenziosa e implacabile contro il veleno bianco, la cocaina. Per i più romantici, invece, è nelle sale un film eccezionale... due cuori, una passione sola: Romanzo d'amore, con Danielle Darrieux e Rossano Brazzi, il latin lover per antonomasia.
I più raffinati, infine, potevano andare al Parioli a vedere Cronaca di un amore, il primo lungometraggio di Michelangelo Antonioni, con Massimo Girotti e Lucia Bosé, la ex cassiera di una pasticceria milanese che nel 1947 era stata proclamata «Miss Italia» vincendo la temibilissima concorrenza di Gina Lollobrigida, Gianna Maria Canale e Eleonora Rossi Drago. Oppure Giungla d'asfalto di John Huston, reduce dal successo ottenuto alla Mostra del cinema di Venezia.
Pochi i critici (sei in tutto e alcuni presenti per coincidenze della vita), pochi anche i cantanti: in tre cantarono tutte e venti le canzoni selezionate. Erano Nilla Pizzi, il Duo Fasano e Achille Togliani.
Quali sono le caratteristiche prevalenti delle canzoni delle prime edizioni del Festival di Sanremo?
Prima di tutto la canzone all'italiana è retorica e maschilista. Ne è un esempio davvero tipico ...E la barca tornò sola di Ruccione e Fiorelli, proposta al festival del '54 da Franco Ricci e Gino Latilla. La storia narra di due fratelli pescatori i quali possedevano una mamma bianca, una barca nera e tre cuori ancora da creatura.
Nell'Italia dell'epoca la popolazione parlava prevalentemente il dialetto, si contavano quattro milioni di analfabeti contro i poco più di tre milioni di diplomati e laureati. C'è da chiedersi come gli ascoltatori interpretassero il testo il legno dell'incognita straniera: chi nell'Italia degli anni '50 usava una sineddoche del tipo legno per barca? E a chi soprattutto sarebbe venuta l'idea di usare un arcaicismo come incognita? Un arcaicismo di incerta interpretazione del resto: sconosciuta, ignara, che, riferito alla donna, calzava comunque a pennello: che più della Donna Ignaro, chi più di lei impenetrabile? Anche l'attributo di straniera acquistava in quel contesto una certa dose di ambiguità. Straniera poteva significare semplicemente turista ma anche, in modo più allusivo, estranea all'uomo. Ma sempre, nell'un caso e nell'altro, donna di malaffare, malafemmina: epiteto valido per la donna in generale e, per antonomasia, per la donna forestiera.
Oltre ad essere terribilmente retorica la canzone all'italiana e terribilmente patriottica, almeno in quegli anni in cui il pretesto era offerto dal problema di Trieste, lasciato irrisolto dagli accordi di pace. Gli accordi avevano assegnato la maggior parte della Venezia Giulia alla Jugoslavia. Trieste e la zona circostante erano state sottratte all'Italia e trasformate nel Territorio libero di Trieste, diviso in due zone: una sotto l'amministrazione militare anglo-americana e l'altra sotto gli jugoslavi. L'autunno del 1953 fu caratterizzato da forti tensioni in città e a livello internazionale con le potenze vincitrici che non riuscivano a trovare un accordo. Il 6 novembre ci fu una manifestazione a Trieste: la polizia sotto l'amministrazione alleata sparò sui manifestanti uccidendo 6 persone e ferendone un numero ben più alto. Questi fatti provocarono in Italia altre manifestazioni (organizzate soprattutto da studenti) rivolte contro i nostri alleati occidentali e in particolare contro l'ambasciata inglese a Roma.
I parolieri di Sanremo non si lasciarono sfuggire l'occasione per dare il loro contributo canoro alla causa italiana: i festival del '52-'53 grondano nazionalismo da tutti i pori, a cominciare da quel Vola, colomba di Concina-Cherubini che Nilla Pizzi portò al successo nel 1952.
Nella prima strofa siamo di fronte a una coppia cattolicissima: lei invoca il Dio del ciel, lui prega inginocchiato, a San Giusto.
Tutte le canzoni di quegli anni, del resto, sono particolarmente devote e pie, di una devozione che si traduce puntualmente in rassegnazione e rinuncia e che suggerisce l'idea che ogni conquista (personale o sociale) non può che essere frutto della grazia divina. Sono canzoni di un'Italia ancora prevalentemente arcaica e rurale, la cui ideologia è il Pacellismo e i cui simboli sono la campana, il vespro, la collina, il breve ripido sentiero.
Poi c'è, come di prammatica, il tema dell'amore contrastato, ma questa volta a causa di ragioni politiche: il richiamo a San Giusto introduce, con una soluzione di sicuro effetto, il tema di Trieste italiana. Qui però le ansie d'amore non sono imputabili alla perfidia muliebre, ma al tradimento e agli inganni della perfida Albione. Con questo richiamo patriottico la triade Dio-Patria-Famiglia è completa.
La triade Dio-Patria-Famiglia ritorna in Campanaro, seconda classificata al festival del '53, che porta ancora la firma di Concina-Cherubini. A parte per la citazione hemingwayana, tutto il testo è costruito sui simboli di un'Italia rurale con una popolazione ossessionata delle pene d'amore, piegata in mistiche implorazioni e impegnata in inutili emigrazioni, con l'ultima strofa patriottarda intenta a rendere onore ai caduti della Grande guerra.
Luoghi comuni che si ritrovano tutti nei ricordi che evoca il Vecchio scarpone di Donida-Calibi, terzo premio ex equo al festival del '53. Modo nuovo di cercare consensi, che allargava la fascia degli appassionati della canzone leggera anche agli studenti, che cantavano Vecchio scarpone nei pullman delle gite invernali del CAI.
Questi luoghi comuni avevano però trovato la loro sintesi più mirabile in una canzone cantata sempre da Gino Latilla al festival del '53: Tamburino del Reggimento di C. Deani. La critica aveva accostato questo brano alla famosa Sagra di Giarabub di Ruccione - De Torres (1941).
Parlando della canzone all'italiana di quegli anni occorre aggiungere un altro ingrediente: la nostalgia.
La nostalgia del tempo che fu, come nel Valzer di nonna Speranza (1952) di Saracini e Tettoni
Nostalgia della giovinezza perduta, come, in Vecchio scarpone e, ancora, in Vecchia villa comunale (1953), di Ruocco e N. Oliviero.
Nostalgia, infine, della patria lontana, come nello slow di Nisa e D'Anzi, quinto classificato al festival del '52, Un disco all'Italia.
Era, al fondo, la nostalgia di un'Italia più piccola, più provinciale, anche se forse più vivibile. Non a caso in queste canzoni, abbondano i diminutivi e i vezzeggiativi (Due gattini, La collanina)
Il tema della nostalgia ha però una sua resa perfetta in due canzoncine del '54, Berta filava, un valzer di Wilhelm-Fiammenghi, e Aveva un bavero di Virgilio Ripa.
Tutte e due trasudano nostalgia e rimpianto per il bel tempo che fu, per un piccolo mondo antico fatto di sentimenti semplici ma genuini dove in sere fredde e scure, presso il fuoco del camino di raccontavano storie romantiche di amori teneri e appassionati. La morale di fondo è esplicitamente dichiarata in Berta filava: Nel mondo senza scompiglio, / Forse si stava assai meglio, / Col lumicino a petrolio e un fior / Che bello donare un bacio d'amor.
Dall'analisi di queste due canzoni emerso quale era lo stile di una canzone di Sanremo: una introduzione non troppo orecchiabile, spesso in forma di recitativo su accordo di settima o nona, mai comunque compiuto cui segue una seconda parte che “rimane in testa e non te la levi più”.
Dopo questa diagnosi, autori, compositori e discografici fecero in seguito a gara nel proporre motivi facili da memorizzare, mandando alle ortiche per molti anni tutti i buoni propositi di dare un taglio netto al passato, di imparare la lezione inglese, americana e francese per elevare i contenuti della canzone nostrana, senza tradire i tradizionali stilemi che ci differenziavano caratterizzandoci col sapore mediterraneo.
A una prima lettura Papaveri e papere sembra una di quelle favolette innocue e spensierate; così non sembra. I papaveri a molti, nel 1952, sono sembrati i notabili della Democrazia cristiana di allora, i “forchettoni” come i comunisti amavano definirli. La “legge truffa” è alle porte e i primi scandali del regime democristiano cominciano ad occupare la cronaca: il caso Montesi sta per riempire le prime pagine di tutti i giornali.
Questo spiegherebbe il grande favore popolare della canzone che riuscì a vendere 70,000 copie di dischi (25,000 in più di Vola, colomba) e con un inaspettato successo anche in Gran Bretagna. Nello stesso anno se ne fece anche un film con Valter Chiari e Anna Maria Ferrero. Senonché, a una più attenta lettura, l'interpretazione è opposta: la morale è decisamente rinunciataria, che predica rassegnazione a oltranza e supina accettazione del proprio stato di inferiorità sociale.
Il 1958 dovrebbe sancire il trionfo della canzone L'edera. La canzone di Seracini e D'Acquisto possiede infatti tutti i requisiti per diventare un motivo di sicuro successo. La sua melodia non è niente male. Le sue interpreti si chiamavano Nilla Pizzi e Tonina Torricelli, e cioè la regina della canzone e quella che molti consideravano la sua più probabile erede.
Sul cammino dell'Edera c'è solo un ostacolo: Domenico Modugno. Molti sono gli elementi che rendono Modugno e la sua canzone Nel blu dipinto di blu originale nel panorama generale dei cantanti e della canzone italiana. Prima di tutto il nostro cantante pugliese (Polignano a Mare, Bari, 9 gennaio 1928) è quello che qualche anno più tardi avremmo chiamato un cantautore. Quando arriva nel '58 a Sanremo ha già al suo attivo splendide canzoni in un dialetto che è un misto delle sue origini sia pugliesi che siciliane (Lu pisci spada, La Sveglietta, La donna riccia) ma anche altre canzoni dolci e struggenti come Vecchio frack del 1954. Dal '51 al '53 aveva studiato al Centro sperimentale di cinematografia ma De Robertis, un importante regista, aveva capito che la sua strada era la canzone: lo porta con sé alla RAI per fare il presentatore in una trasmissione radiofonica di lancio di giovani talenti, Trampolino. Dopo anni di canzoni in dialetto siciliano Modugno approda anche alla canzone napoletana ma l'ambiente (in particolare Aurelio Fierro e Sergio Bruni) fa fatica ad accoglierlo; le sue canzoni suonano non napoletane. Di questo periodo fa parte Resta cu' mme, vera preghiera e invocazione alla donna amata che sbalordì il pubblico, la censura e le questure di tutta Italia. Per Modugno il dialetto è una lingua in cui parlare e dire nel modo più nuovo le cose più nuove al di là e oltre i limiti ambientali della stessa voce dialettale.
Lu pisci spada
La sveglietta
La donna riccia
Resta cu mmè
Vecchio frack
La lontananza
Arriviamo così al 1958 quando gli organizzatori del Festival devono selezionare tra 391 canzoni giunte per la competizione e ad una prima cernita il numero si riduce a 135. Alcuni componenti la giuria erano perplessi per l'audacia musicale di Nel blu dipinto di blu e per il suo testo di ispirazione molto moderna.
La canzone di Modugno aveva avuto una lunghissima gestazione; già negli anni del centro sperimentale aveva conosciuto Franco Migliacci con il quale condivideva l'amore per la pittura. I due lavorarono su musica e testo per almeno sei mesi partendo da una folgorazione iniziale data probabilmente dal quadro di Chagall Le coq rouge dans la nuit.
In un'intervista del 1978, Modugno raccontò: "Una mattina mi sveglio e dico a mia moglie: ma guarda che bella giornata! Lei risponde: mi pare che stia piovendo. Io sentivo crescere dentro di me una grande felicità. Mi metto al pianoforte e comincio a cantare: nel blu, dipinto di blu. D'improvviso provo l'impulso di andare alla finestra e lancio un grido potentissimo, spalancando le braccia, come di uno che stia per spiccare il volo: Voolaaree...oh,oh! Ecco quello che mancava!" (da TV Sorrisi e Canzoni del 22-28 gennaio 1978, p. 36).
È forse proprio nel testo che dobbiamo cercare la prima causa del successo di Volare: parole vagamente surrealiste nella strofa e un elettrizzante e scatenato refrain.
Sicuramente parole nuove, liberatorie, eccitanti e che alludono alla sessualità attraverso proprio il volare enfatizzato nell'esecuzione di Modugno al Festival allargando le braccia in modo molto teatrale. Certo, anche le canzoni precedenti trasudavano sesso, se non proprio quelle di Sanremo, così bigotte e perbeniste, sicuramente quelle del periodo fascista e dell'immediato dopoguerra. Ma la loro era una sessualità sfacciata, volgare, quando non pesantemente allusiva, tratto questo presente in tutta la canzone italiana fin dalle sue origini.
Rispetto a queste canzoni, quella di Modugno non era solo diversa: ne costituiva l'antitesi, In Volare la sessualità era felice, libera, vissuta senza traumi, senza complessi di colpa, con naturalezza. Con la sua incontenibile vitalità e con la sua ansia di liberazione da tutti i tabù, Nel blu dipinto di blu faceva giustizia della vecchia canzone all'italiana, delle tante mamme, delle corde della mia chitarre, dei vecchi scarponi, di tutte quelle cose false che impedivano alla nostra canzone di rinnovarsi. Spazzando via un decennio di retorica, annunciava l'avvento di un'epoca nuova.
A Sanremo non fu un successo: fu qualcosa di più, un trionfo, un delirio, la gente si mise a gridare sventolando i fazzoletti e lo stesso effetto di entusiasmo si verificò nelle case e nei bar dove si trovavano i televisori. Il gesto risolutivo di Modugno fu quello di spalancare le braccia, in un'epoca in cui gli interpreti di canzoni si presentavano sempre con le mani strette sul cuore.
Modugno, con questa canzone, dimostra di essere anche molto più avanti del sentire della popolazione in merito alle libertà morali. Occorre ricordare che nel '58 il vescovo di Prato definisce pubblicamente peccatori e pubblici concubini due giovani della sua diocesi che hanno deciso di sposarsi solo con il rito civile e che nel 1950 Oscar Luigi Scalfaro incappa nel Caso del Prendisole.
Ricordiamo anche l'approvazione della legge n° 75 del 20 febbraio 1958 detta anche Legge Merlin dal nome della senatrice socialista Lina Merlin con cui lo Stato italiano ordina la chiusura entro sei mesi delle Case Chiuse meglio conosciute come bordelli in cui le donne si prostituivano. Una statistica del '52 dava in forza a queste case 20,000 donne ai quali gli “esperti” attribuivano una media di 10 prestazioni pro capite: il che, calcolando le solite 25 giornate lavorative dava un totale di 5 milioni di amplessi al mese. I bordelli erano l'altra faccia del perbenismo dominante che distingueva nettamente l'amore dal sesso e che affermava sorniona: certe cose si fanno solo con le puttane.