1. Dalle origini alla Marcia su Roma (1919-1922)
Le canzoni fasciste di questo primo periodo movimentista non si differenziano dal contemporaneo repertorio antifascista, democratico, anarchico e socialista. Ne ripercorrono le stesse tonalità espressive, adoperano gli stessi stereotipi linguistici, talvolta fanno addirittura ricorso alle medesime [musiche o testi?] canzoni, salvo qualche piccola variante (come del resto era già successo per i passaggi di testi popolari dal canzoniere anarchico a quello socialista).
Il più accurato raccoglitore del repertorio fascista, il giornalista Asvero Gravelli, intitolò il suo fortunato volume I canti della Rivoluzione (Roma, Editrice Nuova Europa, 1926) chiudendolo con queste parole: «Su, col Duce, su, compagni a chi la fedeltà? A Noi! Compagni, non camerati, parola del fascismo istituzionale che la vigilia rivoluzionaria ancora non conosceva, o non adoperava correntemente».
Quanto scrive Gravelli, compare in questo link.
[Questo però lo si legge nel link sopra, direi che è inutile ripeterlo] Il Gravelli non immaginava qui di aver delineato, del tutto involontariamente, il ritratto più autentico della sua cara musica fascista: una musica di scippo, sottratta alla classe operaia mediante spedizioni punitive e tanto fragile, nella sua incrollabile fede, che è ancora lo stesso Gravelli a descriverci, con temeraria intempestività, una specie di surreale rivolta degli strumenti, senza accorgersi - probabilmente - della gravità e del significato allegorico di quel che scriveva:
«Sentii più tardi la musica dei fascisti milanesi, e intesi anche qualche stecca musicale, se così si può dire, poiché talvolta le trombe cambiavano ritmo e da Giovinezza passavano a Bandiera Rossa. Le Camicie Nere dicevano che era la tromba che si ricordava del passato».
Cesare Bermani
La lunga storia di un inno popolare, di origine repubblicana e garibaldina
Bandiera rossa non è solo l'unico inno della classe operaia italiana che possa considerarsi come un vero canto popolare di tradizione orale ma è anche un inno che è sedimento di larga parte della storia d'Italia. Formata da due diverse melodie di largo uso popolare sin dall'Ottocento, trova ascendenza sia melodica che testuale in un canto repubblicano, del quale una versione è stata raccolta nel 1973 in una colonia di valsuganotti emigrati a Stivor (in Bosnia) verso il 1884 e da allora rimasti senza più contatti con l'Italia:
Avanti popolo con la riscossa
bandiera rossa bandiera rossa
avanti popolo con la riscossa
bandiera rossa bandiera rossa
Come è noto, la bandiera rossa divenne emblema ufficiale dei repubblicani fin dal 1870, dopo l'entrata delle truppe regie in Roma. Voleva essere l'adozione di un simbolo diverso dalla bandiera nazionale, che recava lo stemma sabaudo sul tricolore ed aveva quindi snaturato il vessillo della repubblica romana «immune da ogni insegna servile». La melodia della canzone doveva però già essere di uso garibaldino, come fa pensare il frammento di un canto ancora in uso nel Novarese nei primi anni del Novecento, soprattutto in occasione della commemorazione del 20 settembre 1870 (Presa di Roma o Breccia di Porta Pia):
E la sciavata del Pio nono
giü giü dal trono
giü giü dal trono
e la sciavata dal Pio nono
giü dal trono voiàm bütà.
L'ascendenza repubblicana di Bandiera rossa è stata ricordata da Luigi Repossi sin dall'ottobre 1920; egli scrive: «Circa dieci o dodici anni or sono [1908-1910] eranvi a Milano una fanfara repubblicana e un Circolo repubblicano, intitolati Maurizio Quadrio: [...] Ora ecco che, verso il 1910, tal Boschetti Piero, operaio meccanico dello stabilimento Miani e musicante e suonatore di bombardino (terzo bombardino), quando detta fanfara si portava a fare qualche scampagnata (come allora usavasi) o qualche serenata sotto i balconi, verso la fine suonava dei couplets, e fra gli altri quello che divenne Bandiera rossa. La prima parte la credo sua* (noi sappiamo dei valsuganotti di Stivor). Quanto alla musica della seconda parte, i vecchi milanesi se la devono ricordare. È un antichissimo ritornello milanese:
Ven chì Ninetta
sott'all'umbrelin;
ven chì Ninetta,
te farò un basin.
Te farò un basin,
ti donerò il mio cor;
ven chì Ninetta
che farem l'amor
Le ricerche condotte su campo negli anni Sessanta hanno permesso di accertare l’uso di Bandiera rossa solo a partire dal 1901, pure se l'inno assurge a vera grande popolarità tra i socialisti solo con il «Biennio Rosso». Si può tuttavia dire che sulla melodia di Bandiera rossa si improvviserà di tutto e da parte di tutti, così com'è giusto si faccia sui modi popolari, a cominciare da questa canzone per Trento e Trieste, insegnata nel 1915 nelle scuole milanesi:
Abbasso l'Austria e la Germania
e la Turchia in compagnia
abbasso i vili che fan la spia
in favore degli oppressor.
Viva l'Italia e le cento città
Trento e Trieste si raggiungerà.
L'eroico Belgio col nobil russo
frenato ha l'impeto di Barbarossa
or tutto è sorto il mondo civile e
Attila vile si schiaccerà
E tutto il mondo intero allor godrà
l'amor la pace e la libertà
E perfino i fascisti... La melodia di Bandiera rossa viene del resto usata dagli arditi durante la Grande Guerra e il Diciannovismo, dai pipini e dai socialisti durante il «Biennio rosso», dai comunisti e dai fascisti dopo il «Biennio rosso», in ininterrotte trasformazioni. Per esempio, nel 1921 gli squadristi cantano:
Avanti popolo alla riscossa
ai comunisti si rompe l'ossa
Questa strofetta passa nel repertorio dei neofascisti e negli anni Sessanta diventa:
Avanti popolo alla riscossa
dei comunisti vogliam le ossa
dei socialisti vogliam la pelle
per far salsicce e mortadelle
Di qui passa poi negli stadi:
Avanti popolo alla riscossa
dei milanisti vogliam le ossa
e di Rivera vogliam la pelle
per far salami e mortadelle.
E se qualcuno ce lo impedisce
noi gli faremo il culo a strisce
Dallo stadio passa in fabbrica e viene così trasformata nel 1972 dalle operaie della Crouzet di Milano, fabbrica di timers per lavatrici e lavastoviglie:
Avanti o popolo alla riscossa
che dei crumiri vogliam le ossa
dei dirigenti vogliam la pelle
per far salami e mortadelle.
E del Lally [il direttore della fabbrica] ce ne freghiamo
e noi la lotta la continuiamo
e se qualcuno ce lo impedisce
noi gli faremo il culo a strisce
Ci u elle o! Culo a strisce gli farò
Quindi sull'aria di Bandiera rossa si è cantata pressoché tutta la storia d'Italia dal punto di vista del sentire popolare, nelle sue molteplici variazioni, anche di segno reazionario. E questo canto, popolare per la melodia, tanto da divenire un modo dell'improvvisazione, lo è anche per il testo. E non solo perché sia anch'esso carico di storia e di costume, e sia con Bella ciao il solo dei nostri canti sociali diventato noto in tutto il mondo; e nemmeno soltanto perché esso sia divenuto al quinto congresso del PCI, il primo dopo la Liberazione, uno degli inni ufficiali di quel partito assieme al Canto dei lavoratori di Filippo Turati e Amintore Galli e all'Internazionale di Eugène Pottier e Pierre Degeyter. bisogna finire la frase...
Oggi s'è perso il significato che esso aveva in origine, ma la filologia più avveduta ha messo in luce che «trionfare» era ancora agli inizi del secolo un'espressione fondamentale del gergo dei marginali - minatori, muratori, camminanti, braccianti, artigiani della montagna - e significava «vivere bene, godersela». Quel «trionferà» di Bandiera rossa non aveva quindi all'inizio del secolo solo il significato unilaterale e colto, e voglio dire "non popolare", di "vincerà". Questo unico significato il testo l'assumerà più tardi. Allora Bandiera rossa non era ancora cantata come fosse l'annuncio di una palingenesi ma soltanto con il significato, né retorico e né messianico, che, nonostante i padroni, con la lotta di classe e il socialismo, il proletariato avrebbe potuto egualmente godersi la vita, essere cioè malgrado tutto un "allegro popolo".
L'inno del Partito Nazionale Fascista Giovinezza nasce quasi per caso nel 1909 quando un gruppo di studenti torinesi, con l'aiuto di Nino Oxilio, scrive versi per coniugare la nostalgia per i conclusi anni di studio con annesse goliardie sentimentali e temi guerreschi dal titolo Commiato. L'anno successivo si svolge a Bardonecchia un corso sciatori del Regio Esercito in cui è arruolato anche Blanc; è forse per questo motivo che Commiato diventa Inno degli sciatori. Dopo la formazione del corpo degli Arditi nell'estate del 1917 e la disfatta di Caporetto nel novembre dello stesso anno ritroviamo la melodia di Blanc con parole mutate e funzione diversa: era già diventato L'Inno degli Arditi.
Terminata la guerra la canzone resta il cavallo di battaglia dei reduci. Tornati alla vita civile essi rivendicano le promesse fatte dallo stato durante il conflitto mentre si trovano a fare i conti con un vertiginoso aumento del tasso di disoccupazione e ancora con il problema della distribuzione delle terre nel Sud. Alle frange più estreme dei reduci che protestano aderiscono molti arditi, ex trinceristi e combattenti che, convenuti in adunata a Milano il 23 marzo del 1919, fondano il Movimento dei Fasci. Il loro malcontento non troverà altra speranza che nell'oratoria e nella risolutezza mussoliniana.
Non è ancora il tempo della camicia nera, del saluto romano, degli "alala" e del manganello e lo stesso neonato fascismo non ha ancora un'identità ben precisa. Con l'appoggio di Mussolini all'impresa di Fiume (settembre 1919) l'unità di intenti fra dannunziani e fascisti diviene totale. I versi dell'Inno degli Arditi passano agli squadristi. Così descrive questo travaso il Gravelli: «I primi fascisti sono esattamente i continuatori dell'opera e dei mezzi degli Arditi, e l'Inno degli Arditi è il primo canto fascista. Chi aveva combattuto per una patria migliore e si vedeva defraudato dei frutti del proprio sacrificio e dalla vigliaccheria del governo, sentì spontaneamente rifiorire sulle labbra il suono di quest'inno, attingendovi entusiasmo e forza per combattere un'altra guerra, tanto più dolorosa della prima. I giovanissimi, quei ragazzacci che per la loro età non avevano potuto combattere lo straniero, al suono di quest'inno di guerra si accodarono ai loro maggiori e si sentirono d'un tratto anch'essi soldati».
Dai primi raduni dell'estate del 1920 alla costituzione del Partito Nazionale Fascista nel '21 alla marcia su Roma del '22 Giovinezza conosce una diffusione sempre più cospicua. Divenuta Inno ufficiale del Partito Nazionale Fascista già all'indomani della sua costituzione (4 novembre 1921), la versione definitiva di Giovinezza viene stesa solo nel 1925. A quella data il fascismo è ormai dittatura ed il romanziere piemontese Salvatore Gotta viene incaricato dalle alte sfere del regime di scriverne un testo più solenne. La musica, praticamente invariata rispetto alle precedenti versioni, è di due tra i compositori più noti dell'epoca: Ruccione e Blanc, lo stesso autore di Commiato sedici anni prima. Il testo e la musica di questa versione per oltre vent'anni entreranno nelle case di ogni famiglia italiana, verranno insegnati ai bambini, puntualmente saranno trasmessi ogni sera alla radio e suonati, dopo la Marcia Reale, ad ogni parata o cerimonia ufficiale.
Dall'altra parte della barricata si canta Viva Lenin! Ha le parole di Raffaele Mario Offidani e la melodia di Cara Piccina! Offidani la scrisse nel gennaio del 1919 e godette di grande popolarità durante il Biennio Rosso, tanto che l'anarchico Camillo Berneri ritenne di dover polemizzare contro il contenuto ideologico della canzone sulla rivista Il grido della rivolta (Firenze, 26 giugno 1920) con le seguenti parole:
«Le masse non hanno ancora compreso che la rivoluzione non si attende, ma si vuole, si vuole e si fa. Il Verrà Lenin! si tira dietro il Verrà la rivoluzione!: due non sensi che pure hanno radice nel fatalismo degli italiani e in quel fondo di religioso senso di aspettazione che è uno dei più potenti elementi di conservazione dell'attuale stato di cose.»
Gli anarchici noi siamo di Milano, nata alla fine della Prima Guerra Mondiale rappresenta in maniera emblematica lo spirito e il pensiero di tanti soldati che avevano combattuto la Grande Guerra e che tornati a casa nutrivano sentimenti di vendetta «contro una classe rea d'ogni delitto / contro una società che maledetta / alla vita ha negato ogni diritto» Un accenno anche all’ultima strofa in cui vengono citati Caserio e Bresci.