Luchino Visconti, Senso, 1954
Il teatro italiano, per la sua organizzazione, per la sua struttura architettonica e per gli spettacoli che vi erano rappresentati, almeno fino all’unita d’Italia, non fu mai volutamente un teatro rivoluzionario o portatore di ideali di unità. Il pubblico che frequentava i vari teatri era molto consapevole dell'ordinamento gerarchico che lo reggeva. C'era infatti in una città
teatri più importanti di altri,
zone all'interno del singolo teatro di maggior prestigio,
stagioni principali e secondarie,
generi musicali
all’apice del quale si trovava l'Opera seria del Settecento a soggetto storico o mitologico, col suo successore ottocentesco, il Melodramma. Tutto il pubblico conosceva l’esistenza dei vari generi dell’opera (opera seria e buffa) ed era consapevole dell’esistenza di una gerarchia dei due generi, ma tutti e due questi generi godevano d'un prestigio alquanto superiore a quello della prosa, la quale a sua volta era superiore allo spettacolo equestre, agli acrobati e via dicendo, fino all'infimo livello delle scimmie ammaestrate. Il pubblico più aristocratico si trovava all’opera seria, durante il carnevale. Poi il pubblico diventava progressivamente meno aristocratico e più plebeo via via che si scendeva lungo la scala delle stagioni, dei teatri e dei generi.
Sala Grande del Teatro Grande di Brescia
La struttura architettonica stessa del teatro era lo specchio della società aristocratica che l’aveva ideata. Tutto il pubblico che lo frequentava era consapevole che il secondo ordine dei palchi era riservato alla nobiltà e questo indipendentemente dal numero complessivo degli ordini. Di norma il primo e il terzo ordine erano un po’ meno prestigiosi e quindi un po’ meno cari ed erano riservati alla nobiltà meno agiata e a professionisti come avvocati, medici e funzionari.
Il prestigio dell’ordine o degli ordini sopra il terzo era senz’altro minore.Fin dalla metà del Seicento in tutte le città del nord e dell’Italia centrale fino a Napoli e nei tre più importanti capoluoghi della Sicilia c’era il teatro e in quelle più importanti ne esistevano tre o quattro tutti di forma analoga a quella ideata verso il 1630-40 quando a Venezia si diffuse l’opera lirica nei teatri aperti per un pubblico pagante: alcuni ordini di palchi disposti in forma rettangolare o a ferro di cavallo, con in mezzo una platea di solito fornita solo parzialmente di panche. In qualsiasi città d’Italia uno dei periodi dell’anno più attesi, durante tutto il Settecento e fino alla prima metà dell'Ottocento era quello del carnevale che, quasi sempre, coincideva con la stagione teatrale di punta. Questa poteva iniziare la sera di Santo Stefano e poteva durare fino al Martedì Grasso. Il teatro apriva alle sette di sera circa e chiudeva a mezzanotte. Durante questa stagione il pubblico assiepava il teatro per quattro o cinque sere la settimana.
Andavano all’opera, e cioè in teatro, i nobili, gli ufficiali di guarnigione, i funzionari, gli avvocati e i medici più in vista, gli studenti delle città universitarie e gli stranieri nelle città d’arte come Venezia, Firenze e Roma; in teatro era presente la servitù che ogni famiglia nobile si portava appresso e che si assiepava lungo i corridoi e le scale del teatro quando non era occupata a portare biglietti o a preparare per i loro padroni, nell'apposito camerino dirimpetto (retropalco) ad ogni palco, spuntini, bibite o gelati.
I segretari, i cancellieri, i maggiordomi godevano d’una tariffa ridotta per l’ingresso in platea mentre gli inservienti in livrea spesso usufruivano del loggione affinché ai loro padroni non venisse a mancare nulla, in teatro come a casa. L’abolizione dei tramezzi dei palchi dell’ultimo ordine per farne tutto un loggione segnò l’ingrasso a teatro delle fasce di popolazione più povera. Esso avviene in tempi diversi nelle varie città a partire dall'inizio dell'Ottocento. Carlo Porta, in una poesia del 1813 raffigura nel loggione della Scala un vigile del fuoco, un lampionaio, vari soldati, un sarto impiegato presso un rigattiere e uno ridicolo personaggio di nome Giovannin Trippetta che racconta quel che gli capita una sera all’opera. Nel testo si coglie la centralità del teatro nelle aspettative di svago e divertimento di una popolazione dalla vita povera di qualsiasi altro momento di fruizione artistica.
Invece a teatro non era possibile incontrare una rappresentanza del popolo intero in quanto non vi entravano manovali, braccianti, mezzadri e soprattutto i contadini che costituivano la maggioranza del popolo italiano. Leggere, come accade nei documenti contemporanei, che in loggione si trovava “il popolo” o “l’infima classe”, serve più che altro a rammentarci fino a che punto fosse limitativo nel primo Ottocento il senso normale della parola “popolo”.
Per tutto questo possiamo quindi affermare che il teatro lirico fu tra le ultime istituzioni italiane ad aprire le porte a chiunque fosse munito di denaro a sufficienza per acquistare il biglietto d'ingrasso. In quasi tutte le città d’Italia, alla nobiltà cui si affiancavano ricchi mercanti, banchieri e professionisti, spettava quasi per intero l’onere di coprire le spese delle stagioni d’opera.
Un altro elemento vietava al teatro d’opera di essere rivoluzionario o portatore di ideali di unità avversi ai governi regnanti: le sovvenzioni che il teatro riceveva dalle autorità governative. Da quando l’opera fu rappresentata in teatri aperti al pubblico le sovvenzioni, in varia forma, erano sempre state elargite dalla nobiltà anche attraverso il monopolio del gioco d’azzardo. Questa concessione non fu sempre vista di buon occhio e venne definitivamente abolita nel 1814 in tutta l’Italia settentrionale, e nel 1820 a Napoli e a Palermo. Questa abolizione portò i vari governi a sovvenzionare ufficialmente in contanti le stagioni; le somme che venivano girate agli impresari derivavano in gran parte dal dazio sui generi alimentari e questo spiega l’avversione sempre dimostrata da liberali e repubblicani nei confronti dell’opera seria perché genere proprio delle corti assolutistiche che usavano per divertirsi i ricavi delle tasse sui generi alimentari.
Il 1848 segna una svolta fondamentale nell'ambiente dell'opera lirica. Come abbiamo già potuto costatare le sorti dei teatri e delle stagioni erano pesantemente legate all'antico regime e qualsiasi moto rivoluzionario influiva in modo disastroso sugli affari. Il 1848, a causa dei moti rivoluzionari, vide troncate le stagioni, ridotte le paghe, falliti alcuni impresari più deboli e fortemente indeboliti i più importanti: l'industria operistica non si riprese del tutto fino al 1854.
Impresari ed editori per descrivere questa situazione usano nei loro carteggi espressioni che non lasciano dubbi sulle difficoltà incontrate.
Assieme a questa realtà documentata se ne affianca un'altra in cui si vedono Impresari, cantanti e librettisti lavorare in modo più o meno scoperto per l'unità d'Italia. Temistocle Solera, librettista di Nabucco e I lombardi alla prima crociata di Verdi, è un bell'esempio di partecipazione attiva nella storia risorgimentale.
Tutto questo si aggiunge a mutamenti che erano già in atto prima del 1848 e accompagnerà i cambiamenti della seconda metà del secolo.
In primo luogo, con un processo lungo e diverso nelle varie città italiane l'opera cessò di costituire il centro della vita sociale delle classi agiate. L'espressione delle passioni politiche, i giornali, le riviste, le associazioni scientifiche, l'abitudine di leggere romanzi e, dall'Unità in poi, la stessa vita politica avrebbe offerto un nuovo campo d'attività a livello nazionale o comunale. Per questo motivo, dopo il 1848, i teatri delle città di provincia si aprono a ritmi intermittenti e quelli situati nei capoluoghi vedono ridotta la loro attività.
In secondo luogo, per soddisfare le esigenze di un pubblico sempre più numeroso e sempre meno aristocratico, dal 1850 in poi furono costruiti teatri di grandi dimensioni, non sovvenzionati dallo Stato. In questi luoghi, per la loro struttura e soprattutto per il loro pubblico, si afferma "opera di repertorio": nei cartelloni, a fianco di nuove produzioni, espressamente scritte per quella stagione, cominciavano a venir rappresentate opere già allestite in precedenza. Nel 1855 l'opera di repertorio si stava rapidamente affermando e verso il 1870 era diventata la regola. Questo modo di organizzare i cartelloni permetteva di recuperare scene e costumi già utilizzati abbassando notevolmente le spese. I cantanti primari avevano un loro repertorio e potevano essere ingaggiati in tempi brevissimi. Per questo, negli ultimi vent'anni dell'Ottocento, le nuove opere allestite furono sempre meno. La prassi organizzativa dei teatri italiani dettata dall'avvento dell'opera di repertorio, voluta da un pubblico sempre più eterogeneo e popolare, portò alla commercializzazione dell'opera, intesa come forma d'arte, ed anche ad una cristallizzazione di moduli e di forme e, quindi, ad un suo impoverimento.
In terzo luogo il processo di unificazione, che sostituì al potere locale un governo centrale per sua natura accentratore, modificò radicalmente i rapporti economici che avevano fino ad allora regolato la vita economica dell'impresa operistica. Lo Stato italiano nel 1863 prese atto che una consistente fetta di teatri demaniali da poco ereditati (quelli di Milano, Napoli, Torino, Parma, e Piacenza) gravava sulle finanze pubbliche. Da poco conclusa la terza guerra d’indipendenza, il 17 giugno 1867 la voce “teatri” venne cancellata dal bilancio statale e furono avviate le pratiche di cessione ai rispettivi municipi. Questi avrebbero avuto, d’ora innanzi, la “facoltà”, non l’obbligo, di provvedervi. Lungi dal configurarsi come un progetto di decentramento questa misura era determinata da motivi di ordine economico dettati dall'urgenza di far fronte ai problemi esistenti (questione meridionale, costruzione di opere pubbliche, espansione della rete ferroviaria, risanamento delle finanze).
Intervenendo sui provvedimenti varati dal governo e in particolare sulla gravosa tassa del macinato introdotta nel 1869, Verdi, sempre attento ai problemi sociali del suo paese, dalla tenuta di S. Agata scriveva ad un suo amico mantovano: «[…] ci vuol altro che mettere delle imposte sul sale e sul macinato e rendere ancora più misera la condizione dei poveri. [...] Cosa singolare! Quando l’Italia era divisa in tanti piccoli Stati, le finanze di tutti erano fiorenti! ora che tutti siamo uniti, siamo rovinati. Ma dove sono le ricchezze d’una volta?!» In: Lettera di Verdi a Opprandino Arrivabene, da S. Agata, 16 giugno 1867, in Verdi intimo. Carteggio di Giuseppe Verdi con il conte Opprandino Arrivabene (1861-1886), a cura di Annibale Alberti, Verona, Mondadori 1931, pp. 78-79.
Dalla facoltà data ai Comuni di elargire le sovvenzioni ai teatri alla possibilità di negarle il passo era breve a causa anche dei contrasti, spesso confluiti in tribunale, tra giunte municipali e palchettisti i quali, avendo contribuito in anni remoti alla costruzione dell’edificio, si rifiutavano di contribuire alle spese, negavano la rivalutazione dei “canoni” annuali o svolgevano un lucroso mercato di subaffitto in concorrenza e con grave danno per le imprese operistiche
Seguirono poi i tagli da operare sui bilanci comunali, come sottolineò nel novembre ‘91 in un severo ammonimento alla nazione il presidente del Consiglio dei ministri Di Rudinì, invitando i municipi a limitare le uscite “facoltative”. Bisognava dare la precedenza, sostenevano altri, alle spese pubbliche di primaria importanza: strade, acquedotti, ospedali, scuole.
Nel nostro paese i provvedimenti varati in materia teatrale furono in effetti rari e del tutto insufficienti. Nel 1865 si stabilì la tutela del diritto d’autore (legge 25 giugno 1865, n. 2337), nel 1867, come si è detto, subentrò la soppressione della dote, nel 1868 giunse la tassa, molto avversata da impresari e gente dello spettacolo, del 10% sugli introiti lordi (legge 19 luglio 1868, n. 4480). Dietro a questi interventi è evidente il modo di pensare della classe politica italiana che, indifferente al problema dell'educazione musicale intesa come patrimonio culturale della società, vede nell'istituzione teatrale in generale solo l'espressione delle richieste di svago e divertimento delle classi più agiate. Molti furono i musicisti, gli insegnanti e i critici musicali che, con un occhio rivolto al resto dell’Europa, mettevano in evidenza la povertà e l’incapacità di lungimiranza della politica culturale italiana di quegli anni. Per tutti un esempio in questo scritto di F. D'Arcais in Nuova Antologia del 16 settembre 1889
La musica verrà riconosciuta come materia d’insegnamento e resa obbligatoria in Italia solo nel Novecento. Dapprima nel 1923 (un programma elaborato per il ministro Gentile da Giuseppe Lombardo-Radice, ma destinato a decadere dopo appena un anno) e definitivamente, seppure in una forma inadeguata, con la riforma della scuola media nel 1962.
Alla sostituzione del teatro come luogo privilegiato di incontro sociale occorre considerare le mutate condizioni sociali ed economiche che portarono i ceti intermedi e la piccola borghesia a sfruttare gli aumentati mezzi di comunicazione. Chi se lo poteva permettere, negli ultimi due decenni del secolo, passava i mesi da giugno a settembre in villeggiatura obbligando i teatri ad abolire la stagione estiva. Artisti e addetti allo spettacolo si trovarono nuove terre di conquista. Rio de Janeiro, Buenos Aires, Avana, Lima, Caracas, Santiago, New York, Chicago, Philadelphia, San Francisco, già esplorate in pionieristiche tournées fin dagli anni ‘40, diventano le capitali più ambite, verso le quali si dirigono in estate non solo i cantanti più noti, scritturati con cachet da capogiro, ma intere compagnie formate da orchestrali, coristi, direttori, corpo di ballo. Campagne pubblicitarie e accoglienze in grande stile furono predisposti per i musicisti della Giovane scuola. Puccini si vide dedicato nel 1907 dal Metropolitan di New York un intero festival della durata di sei settimane, Leoncavallo raccolse nel 1908 i suoi primi successi di operettista con La jeunesse de Figaro, Mascagni riservò la prima mondiale di Isabeau nell’11 al Coliseo di Buenos Aires. Nel doppio ruolo di direttori artistici e d’orchestra, Arturo Toscanini e Cleofonte Campanini si trasferirono in America per molti anni.
Lentamente si chiude un mercato e un altro si apre. Anche le antiche fortune che il teatro d'opera italiano aveva avuto in Europa vanno spegnendosi a causa della maggiore sensibilità che ogni popolo matura, a partire dalla seconda metà dell'800, verso le proprie tradizioni popolari e musicali. Nei paesi europei le sovvenzioni pubbliche ai teatri continuarono ad essere elargite con lo scopo di diffondere, radicare e incrementare le proprie tradizioni culturali. I teatri italiani all'estero, lentamente, chiusero i battenti e quelli in Italia li aprirono sempre meno.